
Ruggiero Sfregola, dal violino all’anima: un viaggio
Ruggiero Sfregola
Ruggiero Sfregola non ha semplicemente imparato a suonare uno strumento: ha lasciato che il violino diventasse parte del suo respiro, voce viva del suo amore per il mondo. Quella che per molti è carriera, per lui è vocazione: la musica come gesto d’amore, come carezza che accoglie fragilità, come luce nei luoghi dove la parola si spegne. Ha fatto della musica una presenza discreta ma potente. Non per esibirsi, ma per incontrare. Perché il vero musicista è un cucchiaio: serve senza trattenere.
Trasmette senza trattenersi.
Ogni nota racconta un ricordo, ogni suono si fa sguardo, ponte, relazione. Così, nei reparti oncologici e psichiatrici, negli hospice e nelle aule di lezione, Ruggiero non suona per qualcuno, ma con qualcuno. E in questo “con” c’è il segreto del suo dono: la musica non come performance, ma come comunione.
E così, da quel primo "La" che fece nascere una lacrima inspiegabile in un bambino di cinque anni, Ruggiero non ha più smesso di cercare quell’ascolto autentico che precede il suono stesso. Perché sa che, se donata con amore, anche una sola nota può trasformarsi in miracolo.
Ruggiero Sfregola non è soltanto un violinista: è un uomo che ha fatto della musica un gesto di cura, un ponte che collega l’invisibile al visibile e traduce le note di un pentagramma in arte, che collega l’arte alla compassione. Concertino dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, una delle più antiche istituzioni musicali del mondo (fondata nel 1585, cuore pulsante della tradizione sinfonica e cameristica italiana), docente di violino e di musica da camera, fondatore di vari gruppi tra cui il TrioFolk di Santa Cecilia, il maestro Sfregola ha percorso con il suo violino sentieri non convenzionali. Dalle sale da concerto più prestigiose del mondo ai corridoi d’ospedale, dai teatri stipati di un pubblico internazionale ai reparti psichiatrici, portando musica dove nessuno se l’aspetta: dentro al cuore di ciascuno, proprio lì dove è necessaria come l’aria e si fa respiro, vita.
Ascoltando la storia di Ruggiero torna alla mente una celebre frase attribuita a Picasso: «Il senso della vita è trovare il tuo dono, lo scopo della vita è quello di donarlo».
Ruggiero, se dovessi raccontare chi sei, da dove cominceresti?
Mi chiamo Ruggiero Sfregola e sono un musicista. Ma questa parola, da sola, non basta a raccontarmi. Sono anche padre, marito, insegnante, volontario. La musica è la mia strada, ma è anche, soprattutto, il modo che ho scelto per amare il mondo.
Quando hai capito che quella strada sarebbe stata la tua?
Avevo cinque anni e mezzo. Mio padre, chitarrista appassionato dei Beatles, tornò a casa dicendo che due suoi amici avevano aperto una palestra e una scuola di musica. Mio fratello maggiore avrebbe fatto musica, io sport, così sembrava deciso. Ma mio fratello non era convinto. «A me non piace», mi disse. «Possiamo fare cambio?» Quasi senza pensarci, ho detto sì. Quel sì è diventato “tutto”, il mio tutto. Ho iniziato col flauto dolce, come spesso accade ai bambini che approcciano la musica. Poi mi hanno chiesto di scegliere uno strumento. Il pianoforte lo facevano tutti, l’arpa non era per me, mio padre suonava la chitarra… così, quasi per esclusione, ho detto: violino, e ci siamo scelti per sempre. Quando le mie mani lo hanno toccato e ho emesso il mio primo La, ho sentito qualcosa vibrare dentro di me. Una lacrima. Senza ragione, solo emozione.
Una chiamata?
Sì, una vocazione, anche se allora non capivo. In quella scuola ho incontrato alcuni bambini disabili, ed è stato scioccante: avevo cinque anni. Era la prima volta. Ma quella nota, quel contesto, tutto insieme… mi interrogavano: c’era una via più profonda, un senso ulteriore. È come se quella nota avesse seminato tutto ciò che è venuto dopo. Oggi affianco alla mia attività concertistica un lavoro intenso, ricco e generativo con i malati, con i bambini, con le fragilità.
Che cosa ti ha insegnato la musica crescendo?
Disciplina. Io ero un bambino vivace – oggi direbbero iperattivo – e la musica mi aiutava a contenere l’energia, a trasformarla, a farne un dono per altri. All’epoca non c’era YouTube, né Spotify. Se ti andava bene ed eri particolarmente fortunato, avevi qualche LP. Io cercavo, ascoltavo tutto, rubavo i dettagli. Una volta – ricordo – andai fino a Merano (dalla Puglia!) per sentire un grande violinista: Shlomo Mintz. Lo ammiravo molto. Era per me un artista eccezionale. Ma fu mentre dirigeva – non mentre suonava – che accadde qualcosa: i musicisti dell’orchestra sorridevano, si divertivano. Non erano esecutori passivi, erano vivi. E lì ho capito che non volevo diventare un solista. Volevo condividere la musica, viverla come gioco, come relazione.
E la tecnica? Che posto ha in tutto questo?
È fondamentale. Ma non è il fine. Felix Ayo, il mio maestro, mi diceva: «Ricorda che tu sei un cucchiaio, un mezzo: tu prendi la minestra e la dai agli altri. Non la mangi tu. Ricorda: il pubblico non viene a sentire te, ma la musica. Tu sei uno strumento. Un tramite. Una via». La tecnica è importantissima, si studia con impegno, ma serve per liberarsene. Per diventare trasparente.
Quando hai iniziato a portare la musica fuori dai luoghi convenzionali?
Tutto è iniziato in parrocchia, con una serie di progetti musicali. Poi sono arrivati gli ospedali, i reparti psichiatrici. Ma, ripensandoci ora, questa scelta ha radici antiche, come spesso le cose importanti. Uno dei primi segni è legato al ricordo di una mia zia. Da anni, in occasione delle feste di famiglia, mi chiedeva di suonarle l’Ave Maria di Schubert, ogni volta, sempre quella. Poi si ammalò di SLA. Non riconosceva più nessuno, fu ricoverata in una struttura. Un giorno vado a trovarla con il mio violino. Suono la sua Ave Maria. E lei… torna. Il suo viso si illumina. È stato come vedere un fiore aprirsi dopo il gelo.
Oppure a Gerusalemme, durante un viaggio con don Massimiliano Nazio, in pieno clima di attentati. Nessuno voleva partire. Ma noi siamo andati. In un ospedale c’era una donna malata terminale, ricorderò per sempre il suo nome: Nelly. Ti guardava con una gioia non di questo mondo. Solo vedermi con il violino in mano – ancora prima di suonare – le ha acceso un sorriso, che sembrava spalancarsi sull’infinito. È allora che ho sentito con chiarezza: ecco dove devo stare, in un incontro personale che si fa relazione.
E da qui sembra non ti sia mai più fermato. Raccontaci della tua esperienza al Campus Bio-Medico.
Con il Campus si è acceso qualcosa che era già dentro di me, ma che non avevo ancora visto così chiaramente. Ho iniziato a suonare nel day hospital, poi nei reparti e nei corridoi, nelle sale d’attesa, nel centro per anziani fragili e, infine, all’hospice: è stato anche quello un viaggio, un percorso. Oggi continuo a costruire dialogo attraverso la musica in tutti questi ambienti. E posso dirlo senza esitazione: non esiste altro luogo dove abbia sperimentato un’attenzione tanto profonda e disarmata. Non è solo l’ascolto di chi ti sente suonare – è l’ascolto che ti guarda, che ti riconosce, che ti accoglie.
Un’attenzione che viene prima della musica, e che forse è già musica in sé.
Nel tempo, con i pazienti, i loro familiari, con il personale medico e sanitario, è nato un legame vero, forte, autentico che non ha bisogno di parole per esistere ed essere raccontato. È, semplicemente è. È una rete silenziosa fatta di sguardi, piccoli gesti, respiri che si accordano. In ospedale tutto si fa essenziale. E la musica, in quel contesto, non può più essere solo esecuzione: deve farsi presenza, offrirsi come dono. Grazie a Dio sono riuscito a fare rete e a coinvolgere in questa attività per il Campus numerosi musicisti.
Il dono non è solo ciò che portiamo: il dono più grande è quello che riceviamo. Perché in quelle stanze non suoniamo per qualcuno, ma con qualcuno. E allora capiamo che solo là dove si crea un’attenzione reale, dove il legame è autentico, la musica può davvero diventare una forma di amore, un modo per darsi al mondo senza riserve. E tutto questo non resta lì, non si chiude in quelle mura. Ma lo porti dentro, sul palco, in ogni teatro, in ogni concerto, nelle aule tra i nostri studenti.
Da quel luogo ho imparato che la musica è viva solo se è relazione. E che relazione e dono sono la stessa cosa, se ci passi davvero attraverso.
C’è un ricordo speciale che conservi nel cuore rispetto all’esperienza di suonare lì dove il dolore si rende più visibile?
Una volta, ancora con don Massimiliano, suonai per un paziente in coma irreversibile, ricoverato all’hospice. Chiesi ai suoi familiari cosa gli piacesse, quali fossero dei brani a lui cari. Entrai, iniziai a suonare seguendo il ritmo del suo battito cardiaco, che mi accompagnava come un metronomo. Il battito accelerava, rallentava… era come se stessimo suonando insieme. Ecco, in quel momento ho capito: anche il silenzio risponde. Anche chi non può parlare, ascolta. E la musica arriva dove le parole più non possono.
So che ora stai lavorando molto anche al progetto Mosaico. Vuoi raccontarci qualcosa?
Sì, l’ho fondato nella mia parrocchia, San Giovanni Battista De La Salle, al Torrino a Roma. Il nome Mosaico racconta bene quello in cui credo: se manca anche solo un tassello, un musicista, oppure se manchi tu che lo componi e che sei unico e insostituibile, l’immagine non è decifrabile, l’armonia si rompe. Ma non è solo l’orchestra a creare il disegno, è anche chi ci ascolta. Questa orchestra è nata da un anno esclusivamente per suonare in cliniche, ospedali, reparti psichiatrici e carceri. È composta da musicisti professionisti e non e abbiamo anche un ragazzo “speciale” alle percussioni, Maurizio.
E quando suoni in teatro, cosa ti porti dentro di tutto questo?
Tutto. Ogni concerto è diverso, perché il pubblico cambia. Senti l’ascolto. E l’ascolto cambia il suono. La musica si modella su chi la riceve. È viva, se ti lasci attraversare. Cambi con lei e grazie a lei. Suonare è una trasformazione continua. Se non fosse così, saremmo ancora fermi a ripetere pedissequamente le stesse melodie da duemila anni, invece la musica ti chiama in un dialogo cui non puoi sottrarti. Devi lasciarti trasformare dalla musica, per trasformarla a tua volta.
Oggi come guardi a quel bambino che ha suonato la prima nota?
Con tenerezza…
È Concertino dei Primi Violini dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia di Roma. Dopo il diploma con lode in violino nel 1994, si è perfezionato in Musica da Camera con Felix Ayo e in violino con Beatrice Antonioni, vincendo diverse borse di studio e concorsi, tra cui quelli per l'Orchestra del Teatro San Carlo di Napoli e per l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. È attivo come camerista in formazioni come il Sestetto Stradivari, il Quint’etto e il Triofolk, e ha suonato con artisti come Lisa Batiashvili, Antonio Pappano e Beatrice Rana. Tiene regolarmente masterclass e partecipa a festival europei come solista e concertatore. È stato definito uno dei migliori allievi da Felix Ayo e suona strumenti di liuteria pregiata, tra cui un violino costruito da Igor Moroder e un Augusto Pollastri del 1909.
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