
Ruggiero Sfregola, dal violino all’anima: un viaggio
Ruggiero Sfregola
Da Roma a Boston inseguendo un sogno: intervista a Maria Laura Blefari
Maria Laura Blefari
Un’intervista che racconta il percorso di Maria Laura Blefari, ingegnere biomedico e Alumna dell’Università Campus Bio-Medico di Roma, oggi impegnata nella ricerca clinica in un’azienda farmaceutica negli Stati Uniti. La sua storia si snoda attraverso tappe fondamentali, dalla laurea nel 2006 alla tesi pionieristica sull’interfaccia cervello-computer, fino ai successivi anni di ricerca a livello internazionale. Il suo cammino, segnato da sfide e cambiamenti, si è arricchito di esperienze che l’hanno portata a scoprire l’importanza di adattarsi, innovare e continuare a perseguire la passione per la scienza al servizio dell’uomo. Al centro del racconto, il legame profondo con la sua formazione universitaria, l'approccio umano e la curiosità scientifica che la guidano ogni giorno. Una testimonianza di come determinazione, curiosità e capacità di reinventarsi siano ingredienti imprescindibili per costruire una carriera significativa, in cui la scienza e la tecnologia sono sempre al servizio della persona.
Ingegnere Biomedico, Alumna dell’Università Campus Bio-Medico di Roma classe 2005-2006, oggi Maria Laura vive negli Stati Uniti dove si occupa di ricerca clinica per una multinazionale farmaceutica. Il suo percorso professionale è stato brillante ma non senza difficoltà.
Degli anni dell’università ricorda il legame unico con i professori e quella curiosità che brucia ancora dentro di lei. L’abbiamo intervistata per farci raccontare il viaggio da Roma a Boston, inseguendo un sogno: fare scienza per l’uomo.
Ti laurei nel 2006 in Ingegneria Biomedica all’Università Campus Bio-Medico. Ed è solo l’inizio.
Si può dire che tutto è partito dalla mia tesi di laurea, nata dalla collaborazione tra il Campus Bio-Medico di Roma, la Fondazione Santa Lucia e la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Riguardava il controllo di un’interfaccia cervello-computer per il controllo di una mano robotica Un’esperienza unica che è stata la forza motrice per quello che è venuto dopo.
Raccontaci.
Dopo aver completato gli studi al Campus Bio-Medico, ho svolto un dottorato di ricerca presso la Scuola Sant’Anna dove ho continuato il progetto di ricerca iniziato con la tesi. Ho avuto la possibilità di utilizzare l’elettroencefalografia per codificare il segnale cerebrale che ci permette di muovere un arto. Durante gli anni a Pisa, chiesi al mio relatore di dottorato, la professoressa Maria Chiara Carrozza – oggi Presidente del CNR – di poter fare un periodo all’estero, a Zurigo. Ho un bellissimo ricordo di quella esperienza, perché per la prima volta mi è stato richiesto di impostare e seguire un esperimento che prevedeva l’uso della macchina di risonanza magnetica. In quello studio ho avuto tantissimi ruoli, studente, ingegnere, tecnico di risonanza magnetico, scienziato, statistico e non ultimo divulgatore dei risultati.
In cosa consisteva l’esperimento?
La ricerca si concentrava sul neurofeedback tramite risonanza magnetica. Si chiedeva alla persona di pensare a un task motorio, senza compierlo, poi si decodificavano i segnali cerebrali per avere un feedback visivo di quell’attività cognitiva. L’idea era di studiare a fondo quali sono i meccanismi di apprendimento di un’intenzione motoria. Il fine ultimo era applicare questi risultati a pazienti colpiti da ictus che non riescono più a compiere determinati movimenti, a trovare una strategia che faciliti la riabilitazione motoria.
Hai poi continuato a fare ricerca in questo ambito?
Sì, ho portato avanti la mia linea di ricerca. Da Zurigo mi sono trasferita a Losanna, per il post-doc presso il Politecnico Federale. Qui ho continuato a studiare i meccanismi di apprendimento di un’intenzione motoria. In particolare ero affascinata dallo studiare i motivi per cui alcune persone riescono più facilmente rispetto ad altre a imparare a controllare l’intenzione motoria attraverso un feedback visivo. Dall’altro mi sono lanciata nel mondo dell’interocezione: l’obiettivo era capire quali fossero le aree del cervello in cui vengono processate le sensazioni visive e cardiache coinvolte nel fenomeno dell’autoscopia (condizione per la quale il soggetto ha percezione del mondo da una posizione esterna a quella del proprio corpo). Abbiamo trovato una correlazione tra una lesione della corteccia insulare e questo “vedere doppio”, dimostrando cosi la relazione causa-effetto tra danno nel cervello e percezione “esterna” del mondo.
È proprio vero che il cervello è l’organo più complesso del nostro corpo.
L’amore per il cervello è tutto per me. Ho sempre fortemente desiderato fare ricerca per capire come funzionasse e cosa si possa fare per combattere le malattie del cervello. Dopo un anno e mezzo a Losanna, però, è iniziata la crisi. Sentivo che l’ambiente accademico non rispecchiava più i miei ritmi e i miei obiettivi e così ho cominciato a valutare altre opzioni.
Cosa ti ha guidata nel cambiamento?
Sempre l’amore, questa volta per mio marito che, anche lui ingegnere biomedico, ha trovato lavoro negli Stati Uniti, suo Paese d’origine. Mentre lasciavo la Svizzera, all’aeroporto di Ginevra, vidi un’insegna pubblicitaria: Change is good and transformation is even better. Interpretai il messaggio come un segnale di buon auspicio. Ammetto che i primi tempi a Boston non sono stati facili, per via della distanza dalla famiglia, dalla mia amata Calabria e per l’incertezza che un cambiamento così grande portava con sé.
E come sei riuscita a trovare la tua strada?
Ho iniziato a utilizzare LinkedIn come strumento principale per la ricerca di lavoro, focalizzandomi su parole chiave legate al neuroimaging e alle malattie neurodegenerative, di cui volevo continuare a occuparmi. Dopo mesi di ricerche, sono riuscita a trovare una posizione come consulente in una Clinical Research Organization dove ho continuato ad applicare le competenze scientifiche apprese in accademia, ma in un contesto completamente nuovo, quello della ricerca clinica. In quel momento non sapevo ancora cosa avrei potuto fare, ma continuavo a essere fiduciosa che la mia passione per la scienza mi avrebbe guidato. È grazie al contatto con alcuni professionisti del settore che ho iniziato a orientarmi verso le aziende farmaceutiche e di biotecnologie.
Qual è stata la tua prima posizione in azienda?
Imaging Scientist. Non ci potevo credere: ero dentro. Ero riuscita ad assumere un ruolo che mi avrebbe fatto fare analisi dei dati di risonanza magnetica (come in accademia), ma finalmente su pazienti. Mi occupavo di sclerosi multipla, una malattia autoimmune che distrugge la mielina, la guaina che circonda e isola le fibre nervose. Parte con un’infiammazione e poi lentamente porta alla rottura dei neuroni e conseguentemente a una serie di complicazioni motorie e cognitive. Collezionavamo dati dalle visite mediche, come immagini del cervello acquisite con risonanza magnetica, campioni di sangue, informazioni demografiche e una serie di test cognitivi eseguiti a mezzo di tecnologie digitali. L’obiettivo era riuscire a scoprire qualcosa di nuovo sulla malattia e aiutare il medico a scegliere la terapia farmacologica migliore per il paziente. Io sono entrata nel progetto nel 2018 e nel corso degli anni abbiamo collezionato una quantità di dati davvero significativa. Big data are big asset. E per rendere questi dati utili ai ricercatori era necessario aggregarli, armonizzarli, descriverli e assegnare a ognuno un numero identificativo. È stato un lavoro bellissimo che mi ha permesso di interagire con molte professionalità diverse. Sempre nell’ambito della sclerosi multipla ho lavorato allo sviluppo di un software per supportare il lavoro dei neuroradiologi. Un’altra esperienza entusiasmante che ha segnato la fine del mio percorso lì.
Cos’è successo?
Dopo cinque anni e mezzo, un bel giorno di settembre, alle dieci del mattino, ho ricevuto una telefonata. Alle cinque del pomeriggio il mio computer non funzionava più. Tutto il mio dipartimento era stato chiuso (laid off). Sapevamo che l’azienda era in difficoltà, ma la repentinità di quell’evento mi ha sconvolta, ero preoccupata per i dati raccolti con dedizione in quegli anni. Chi li avrebbe usati? Con quali competenze? Dopo un periodo difficile pieno di sentimenti contrastanti – da una parte la tristezza per la fine di un’esperienza ricca di soddisfazioni e dall’altra la felicità di poter tornare per un periodo più lungo in Italia – decisi di riprendere il controllo della mia vita mettendomi alla prova. Ho deciso di studiare per conseguire un attestato in Project Management e la cittadinanza americana. Tra gli obiettivi che mi ero posta c’erano anche tornare a fare attività fisica e parlare ogni giorno con almeno una persona diversa, avere interazioni umane. Ed è proprio grazie a queste nuove connessioni che ho trovato il mio attuale lavoro. Oggi sono Associate Director Precision Medicine Neuroscience per un’industria farmaceutica. In particolare, nell’ambito del percorso di sviluppo di un farmaco, mi occupo della gestione di studi clinici volti a testare la sicurezza e l’efficacia di un farmaco prima di essere lanciato sul mercato. Sono felicissima di lavorare in medicina della precisione. Il concetto non è nuovo. Ce lo diceva Ippocrate: «bisogna curare la persona e non la malattia». Attraverso la misura dei biomarcatori, comprendiamo meglio come la malattia si manifesta in ciascun individuo e come risponderà ai diversi trattamenti. Questo permette di sviluppare terapie personalizzate, più mirate ed efficaci.
La ricerca è sempre stata al centro della tua vita. Bastano passione e competenze?
Aggiungerei la determinazione, la costanza, la curiosità e la capacità di adattarsi al cambiamento. Sono stati tutti elementi cruciali nel mio percorso professionale.
Non meno importanti sono la capacità di chiedere aiuto e di non arrendersi di fronte alle difficoltà. Per superare gli ostacoli bisogna essere fermamente convinti del valore del proprio lavoro. Un altro aspetto che ha influenzato la mia carriera è il networking: durante una pausa caffè, a una conferenza, a cena. Oggi se ne parla molto e il suo valore è inestimabile, condividere le proprie esperienze e ascoltare quelle degli altri, perché prima o poi da quell’incontro nascono le opportunità che stai cercando.
Gli anni dell’università come ti hanno influenzata?
Ovviamente mi hanno dato una solida preparazione scientifica che ha contrassegnato ogni fase della mia carriera professionale. Non sarei dove sono oggi senza la mia università. La professione è importante, ma gli anni al Campus Bio-Medico mi hanno segnato anche personalmente: un approccio alla vita e al lavoro centrato sull’uomo e i suoi bisogni.
«La Scienza per l’uomo» è proprio il motto dell’Università.
Esatto, ed è un principio guida per me. L’idea di utilizzare la scienza e la tecnologia per migliorare la qualità della vita delle persone è una visione che si riflette nella mia vita professionale, in cui ho sempre cercato di mettermi al servizio degli altri.
Quale consiglio daresti agli studenti e alle studentesse di oggi?
Ho sempre avuto un ottimo rapporto con i professori. Durante le lezioni si era instaurato un legame stretto con diversi docenti del Campus che mi permetteva di rivolgermi a loro per chiedere aiuto o suggerimenti. Il consiglio che posso dare agli studenti di oggi è di sfruttare questa possibilità: fate domande, siate curiosi ma soprattutto vivete il presente. Questo vi permetterà di fare esperienze diverse, di sviluppare una forte rete di contatti e di trovare un lavoro che vi appassioni, senza dimenticare che il fallimento è parte del processo di crescita.
Maria Laura Blefari aveva solo 8 anni quando disse per la prima volta "da grande voglio fare l'Ingegnere, ma non quello che costruisce case. Io voglio sconfiggere le malattie ". Da li a qualche anno Maria Laura viene ammessa al corso di Ingegneria Biomedica al Campus Biomedico.
Partita dalla sua amata Calabria quando aveva solo 18 anni, Maria Laura decide di fare del suo corso di laurea una missione. Laureata nel 2007 si trasferisce a Pisa per un dottorato di ricerca volto a sviluppare una brain-computer interface per il controllo della mano robotica, vinto grazie ad una collaborazione con il Sant'Anna di Pisa che lei aveva creato durante il suo progetto di Tesi magistrale. Nel 2009 ottiene la possibilita' di espandere il suo lavoro nel campo delle neuroscience al politecnico federale di Zurigo dove impara ad usare la macchina di risonanza magnetica ed analizzare I dati raccolti durante un esperimento di neurofeedback. Si trasferisce al politecnico federale di Lausanne nel 2012 per continuare a studiare I meccanismi di apprendimento motorio nel cervello per migliorare le tecniche di riabilitazione motoria dopo ictus.
Nel 2013 si sposa con un ingegnere biomedico americano che la motiva a trasferirsi negli Stati Uniti. A Boston trova il suo primo lavoro in pharma e si dedica ad un progetto di ricerca su sclerosi multipla. Adesso continua a dare il suo contributo da ingegnere biomedico nelle malattie neurodegenerative.
Maria Laura ha un'instancabile energia positiva che cerca di trasmettere in tutto quello che fa. Spesso le chiedono come riesce a conciliare l'essere ingegnere, moglie, mamma e figlia a distanza. La sua risposta e' sempre la stessa "I am the master of my fate: I am the captain of my soul" (Ernest Henley)
La sua passione per la cucina e' diventata quasi un "ossessione" oltre oceano (potete immaginare perche' :D) , adora il mare e le passeggiate immerse nella natura. Ha fondato una societa' col marito chiamata GioiaB., LLC che mira a fornire strategie per scoperta dell'equilibrio mente-corpo che serve ad ognuno di noi per tirare fuori la parte migliore in ogni situazione.
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