
Ruggiero Sfregola, dal violino all’anima: un viaggio
Ruggiero Sfregola
Esistono uomini e donne che, con il loro contributo, hanno segnato in modo determinante la storia della medicina e della scienza. Le loro storie non si limitano a raccontare la sofferenza derivante dalle malattie, ma mettono in evidenza anche le soluzioni e le scoperte che hanno trasformato la pratica medica. Una di queste, è la storia di Renè Laennec, che, dopo aver vissuto una tragedia familiare legata alla tubercolosi, sviluppò un profondo interesse per la medicina. La sua invenzione dello stetoscopio segnò una rivoluzione nella pratica medica. Il gesto semplice di usare un cilindro di carta per ascoltare i battiti cardiaci cambiò il volto della medicina, introducendo la tecnica come ausilio alla diagnosi. Laennec non solo affinò la sua invenzione, ma con essa portò la medicina a un nuovo livello, dove la tecnica si affiancava alla conoscenza e sensibilità umana. La sua lezione è chiara: la medicina deve unire l’umanità del medico alla precisione scientifica, trovando un equilibrio che renda la pratica medica misurabile e accessibile, senza però perdere la sua dimensione empatica e umana.
Tutti i giorni a quell’ora i mortali di quassù attendono alla triste bisogna di misurare la febbre. Immobili sulle sdraio cogli occhi concentrati in un punto lontano, i profili resi un po’ animaleschi dal protendersi delle mascelle e delle labbra nella stretta del Kramer, in quell’infinito quarto d’ora essi rivivono, ciascuno dentro al petto travagliato, nostro Signore quando sudò sangue tra gli ulivi. In ciascuno si compendia tutta la miserevole storia dell’uomo.
Salvatore Satta, La veranda
Alcune malattie sono passate alla storia, consegnate all’immaginario da scrittori, artisti e musicisti di ogni tempo: c’è L’amore ai tempi del colera, che già nel titolo contiene la cosiddetta malattia dei poveri; ma c’è anche La signora delle camelie e di conseguenza La traviata, e La montagna magica e il «tossire tanto grazioso» di Chopin.
Poche, invece, sono le storie che raccontano di cure.
O di soluzioni.
Certo è molto meno narrativo raccontare di una scoperta salvifica: il poeta ha bisogno della sofferenza. Ma, nel concreto, tra chi alla vita ci si aggrappa con le unghie e con i denti, la poesia serve come panacea dell’anima, ma per il corpo serve altro. E a una delle malattie più note dell’arte e della storia contemporanea è legata una scoperta tanto piccola quanto rivoluzionaria.
Per dire come la malattia – anche il mal sottile, la consunzione, la tisi o come si voglia chiamarla – sia una realtà sconcia e prosaica, non così poetica, quando René Laennec aveva cinque anni la madre era morta di tubercolosi.
Anche, si raccontava, per le complicazioni dovute al parto di uno dei fratelli di René. E questa è la prima coincidenza che porterà quel bambino alla scoperta di cui parliamo qui. La madre muore di tubercolosi e lui è affidato dal padre, un avvocato poco avvezzo alla cura dei figli, da uno zio (tipica storia ottocentesca alla Dickens), un medico che lavora all’ospedale di Nantes. Seconda coincidenza: René impara da Guillaume i rudimenti della medicina. Un bambino di cinque o sei anni che si trova davanti un mondo che, per quanto la ragione avesse preso il sopravvento nelle scienze nel Settecento, restava qualcosa di magico e misterioso. A quattordici anni, René comincia gli studi in medicina: è un prodigio, il suo primo compito è quello di aiuto chirurgo nell’esercito.
Ora, qui le interpretazioni possono essere arbitrarie, perciò ci si limiterà ai fatti.
Non si sa quanto la sua esperienza nella milizia rivoluzionaria – con le sue ostentate crudeltà e le sue ferree convinzioni – abbia contribuito alla formazione di una coscienza cristiana e caritatevole.
Non si sa neppure se fu effettivo spirito cristiano il suo, o piuttosto una reazione alla violenza della rivoluzione. Fatto sta che in lui si sviluppa un’empatia spiccata unita a un profondo senso morale. Insieme a questi, una propensione a quello che oggi chiameremmo pensiero laterale, o metaforico, o capacità di creare connessioni insolite. E qui c’è la terza e determinante coincidenza.
A passeggio tra le vie di Parigi – dove si era trasferito da Nantes nel 1801 –, tra macerie fumose e tricolori sventolanti, si accorge di un gruppo di bambini intenti a giocare in un modo quantomeno insolito. Sono tutti lì attorno a una trave di legno, con le orecchie poggiate a un’estremità. Che cosa facciano non è chiaro, perciò, curioso come suo solito, benché con il viso austero del medico di campagna, René si avvicina.
Alla sua domanda, i bambini lo invitano a mettere l’orecchio a un’estremità della trave: dall’altra parte, uno di loro fa cadere uno spillo, e lì avviene la rivelazione.
René sente distintamente il rumore dello spillo al di là della trave. Prodigioso, ma ancora inutile. Sa che di quella scoperta potrà farci qualcosa, ma che cosa?
L’occasione non manca di presentarsi, e lo fa sotto l’aspetto di una donna giovane e pingue che chiede al trentacinquenne dottor Laennec un parere medico.
Ce la possiamo immaginare come una bella donna, magari altoborghese, ben vestita, imbellettata e profumata per passeggiare nelle vie della Parigi restaurata. O come una donna spigliata, anche un po’ arrogante, chissà, che vede René e gli parla come a un suo pari, entrambi giovani, entrambi di classe.
Insomma, se vogliamo immaginarcela così, ci è più facile capire come mai al momento dell’auscultazione il buon dottore si sente in imbarazzo, non del tutto a suo agio. Una donna giovane, bella come voi, non posso chiedervi di spogliarvi, ecco. E poi – questo deve averlo solo pensato – non sentirei bene: questa donna è troppo formosa, dico, non sarei capace di sentire il battito.
E mentre farfuglia qualcosa alla donna, che intanto si sarà spazientita, per nulla lusingata da tutto quel pudore cui lei non è avvezza, René si ricorda di quei bambini e del suono cristallino, ma soprattutto amplificato, che passava dallo spillo al suo orecchio per la trave. Così l’imbarazzo si sarà trasformato in un’affascinante disquisizione sulla tecnica più recente di auscultazione: vedete, non c’è bisogno che vi spogliate, né che appoggi il mio orecchio sui vostri seni, basterà questo, un pezzo di carta. E non fa altro, il dottor Laennec, arrotola un foglio in un cilindro stretto e ne poggia l’estremità al petto della donna.
Sente il battito del suo cuore – un po’ affaticato, ma tutto sommato in salute. Ha appena inventato lo stetoscopio.
Dal 1816, lui stesso si dedicò a migliorare la sua invenzione, con materiali sempre diversi e più efficaci.
L’invenzione si diffuse in tutto il mondo, tanto da diventare il simbolo del medico. Lo stetoscopio significò parecchie cose, prima fra tutte un miglioramento nelle cure delle malattie cardiache e polmonari, ma anche altro. Con quell’oggetto in fin dei conti molto semplice – il genio è semplice, sempre – si introduceva nella pratica medica la tecnica.
Certo, non che prima mancassero strumenti, ma erano piuttosto rudimentali: la competenza del medico si basava, perlopiù, su un fatto personale, su qualcosa di non misurabile, ovvero l’intuizione. Il che, si capisce, rendeva la professione medica molto complessa da trasmettere, perché si fondava su qualcosa che o si possedeva o non si possedeva.
Con l’introduzione della tecnica, di cui qui prendiamo lo stetoscopio come esempio, la medicina comincia a utilizzare un metodo misurabile, che si può insegnare, che ha parametri e procedure.
Oggi sappiamo come sono andate le cose, la tecnica ha preso il sopravvento, inglobando ogni altro aspetto di una professione che è, in realtà, sfaccettata e complessa.
Ma la lezione di Laennec è proprio questa: accanto all’uomo la tecnica può esistere, deve, se vogliamo che la medicina non resti un fatto aleatorio e poco scientifico. Ma, appunto, deve stargli accanto. L’uomo, nell’equazione, è la costante, la tecnica il suo ausilio. Del resto, guardate Laennec. Nessuno stetoscopio sarebbe mai comparso se non fosse stato per la sua profonda umanità: la sensibilità alla malattia, la passione per la medicina trasmessa dallo zio, la curiosità, il senso del pudore, e tutto il resto, sempre infinitamente umano.
Il testo è liberamente ispirato al capitolo «René Laennec», contenuto in L. Borghi, Umori. Il fattore umano nella storia delle discipline biomediche, kdp, 2023. © Luca Borghi
Classe 1996, ha studiato filosofia, scrittura e editoria, e di questo si occupa anche ora: scrive articoli per diverse testate online culturali, lavora insieme alle case editrici come redattore, editor e lettore, si occupa di progetti ed eventi sempre legati al mondo della letteratura e dell’arte in genere. Tra gli altri, oggi collabora con il Campus Bio-Medico di Roma, Feltrinelli, Einaudi e Locarno Film Festival.
Ruggiero Sfregola, dal violino all’anima: un viaggio
Ruggiero Sfregola
L’ottimizzazione nell’era digitale: traiettorie di perfezione e paradossi
Vera King
La città del futuro
Livio Gigliuto
Seleziona i temi che ti interessano e crea un tuo feed con le notizie in evidenza e le storie più belle.
Avrai tutto a portata di mano: più leggi Kaleido Story, più riusciremo a darti l’esperienza che cerchi.
Scegli tu la frequenza, i temi e dicci i tuoi interessi, al resto pensiamo noi, per aggiornarti sulle ultime novità.
Salva le storie che ti hanno appassionato di più, riguardale quando vuoi e condividile con i tuoi follower.