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Ruggiero Sfregola
L’ottimizzazione nell’era digitale: traiettorie di perfezione e paradossi
Vera King
La ricerca della perfezione è un tema che accompagna l’umanità da secoli, ma nell'era digitale ha preso forme nuove spesso inesplorate. In questo contesto, il continuo perfezionamento di sè non è più solo un obiettivo pratico, ma un imperativo culturale che permea ogni aspetto della vita quotidiana: dal lavoro alle relazioni, fino alla cura del corpo. Con l'emergere della «cultura dell'ottimizzazione», la digitalizzazione ha reso misurabile ogni aspetto della nostra esistenza, portando sia a nuove opportunità che a paradossali alienazioni. Questo fenomeno, alimentato da social media ha generato un circolo vizioso di insoddisfazione e stress, dove l'idea di «miglioramento costante» si scontra con i limiti umani.
Emerge la necessità di ridefinire i nostri obiettivi, cercando un equilibrio che riconosca la vulnerabilità, il fallimento e l'importanza di vivere in modo autentico. La sfida è passare dalla ricerca continua per la perfezione a una forma di crescita che valorizzi il potenziale senza perdere di vista il valore intrinseco.
La ricerca della perfezione e il desiderio di miglioramento accompagnano l’umanità da secoli, fungendo da guida per lo sviluppo personale e collettivo. Nella nostra età contemporanea, questa aspirazione ha raggiunto forme nuove e a volte destabilizzanti, in particolare con l’emergere della “cultura dell’ottimizzazione”. In che modo suddetta aspirazione è cambiata? E quali conseguenze porta nelle nostre vite e nelle nostre relazioni?
Nelle righe che seguono, rifletto sul ruolo che la digitalizzazione e la logica della valutazione giocano in questo fenomeno, e sul modo in cui l’ossessione per l’ottimizzazione ha ridefinito le nostre priorità e addirittura il senso di sé degli esseri umani.
L’ottimizzazione come imperativo culturale
Nella cultura contemporanea, l’ottimizzazione non è più solo una strategia per raggiungere obiettivi pratici; è diventata un imperativo culturale. Lontana dall’essere semplicemente un’idea irraggiungibile, come era percepita spesso in passato, oggi l’ottimizzazione rappresenta una pratica che necessita di costante verifica e miglioramento. Questo non significa solo migliorare sé stessi, ma anche verificare costantemente se il tempo e l’impegno investiti stanno dando risultati adeguati.
Questa logica del miglioramento costante non ha limiti definiti. Non c’è mai una destinazione finale; ogni successo diventa immediatamente il punto d’avvio di un passo ulteriore. L’ottimizzazione, pertanto, non è mera scelta ma regola, un modo di esistere che si insidia nei nostri obiettivi quotidiani e nelle nostre relazioni con il lavoro, il nostro corpo, e i nostri rapporti sociali.
Il digitale come simbolo del nostro tempo
L’era digitale ha radicalmente trasformato il modo in cui l’ottimizzazione si manifesta. Da una parte, ha reso possibile la misurazione dettagliata delle nostre vite:
sono tutti dati che ci invitano alla competizione con gli altri, ma anche con noi stessi. D’altra parte, il digitale ha introdotto una dimensione simbolica che paragona il successo con la visibilità e i numeri.
I social media sono terreno fertile per questa dinamica. Lì, la percezione del valore personale è spesso ridotta a parametri semplicistici: più follower, maggiore successo; più like, maggiore approvazione. Ma dietro questi numeri giace una trappola, in quanto essi stessi non sono in grado di catturare la complessità dell’esperienza umana e delle relazioni.
Una questione umana ed esistenziale
Questa ricerca incessante del miglioramento ha smesso da tempo di dar vita a entusiasmo e sana competizione, riducendosi piuttosto a generare sentimenti di sovraccarico, insoddisfazione e stress psicologico.
Burnout e depressione sono sempre più comuni in una società che costantemente ci chiede di “essere al top”. Spesso le persone si sentono intrappolate tra il desiderio del miglioramento personale e la fatica di rispondere a richieste che sembrano non finire mai.
Uno degli aspetti più paradossali di questa cultura è che, nonostante siamo consapevoli delle conseguenze negative che porta con sé, molti di noi continuano a conformarsi a essa. Le persone che ho intervistato nel mio progetto di ricerca descrivono questa pressione come ambivalente: se da un lato genera stress, dall’altro è percepita come una necessità, un passaggio indispensabile perché non si resti indietro in un mondo così competitivo.
Nel progetto Measured Life ho esplorato i modi in cui la digitalizzazione ha trasformato il nostro rapporto con il tempo, con il nostro corpo, e con le nostre relazioni. La capacità di misurare qualsiasi cosa – dal battito cardiaco alle ore di lavoro – ha creato l’illusione del controllo totale, ma ha anche portato con sé nuove forme di alienazione.
Ne è un esempio lampante il modo in cui monitoriamo la nostra salute: il numero quotidiano di passi o la qualità del sonno sono diventati indicatori di benessere, ma anche di autovalutazione. Questo passaggio da sentimenti soggettivi a parametri oggettivi ha trasformato i nostri corpi in una sorta di macchine da ottimizzare, piuttosto che di entità con cui relazionarsi con empatia. In modo simile anche il lavoro e i rapporti sono stati colonizzati dalla logica della misurazione. Le performance lavorative sono a metà tra obiettivi misurabili e risultati, mentre le interazioni sociali sono spesso ridotte a scambi virtuali e numeri su uno schermo.
Al di là dei limiti dell’ottimizzazione
La domanda cruciale, allora, è: possiamo uscire da questo circolo vizioso? Le crisi contemporanee – economica, ambientale e sociale – hanno sottolineato i limiti della logica dell’ottimizzazione, ricordandoci che non tutto può essere migliorato e che alcune cose – come il tempo, le emozioni, o la perdita – sfuggono al controllo umano.
Eppure questa consapevolezza non è ancora abbastanza per invertire la rotta. In un mondo in cui la competizione è ovunque, l’ottimizzazione resta un modo per sopravvivere, per sentirsi “al passo”. Ma dai miei studi emerge la necessità di ridefinire i nostri obiettivi: non si tratta di abbandonare la strada del miglioramento, ma di trovare una prospettiva più equilibrata, che lasci spazio alla vulnerabilità e al fallimento. Il benessere non può essere ridotto a una serie numerica; deve includere elementi come la gratitudine, l’empatia e la consapevolezza dei nostri limiti. L’ottimizzazione, a quel punto, anziché essere un obbligo diventerebbe un’opportunità per esplorare il nostro potenziale, senza perdere di vista il nostro valore intrinseco.
L’era digitale ci ha fornito strumenti potenti, ma è giunto il momento di utilizzarli con saggezza – non come il fine, ma come il mezzo per costruire una vita più autentica. Solo così possiamo superare l’illusione della perfezione e abbracciare l’idea di un miglioramento che sia davvero umano.
Vera King è Professoressa di Sociologia e Psicologia Sociale Psicoanalitica presso l'Università Goethe di Francoforte dal 2016 e svolge la sua attività accademica nel Dipartimento di Scienze Sociali e nell'Istituto di Sociologia.
Da quell'anno ha assunto anche la direzione del Sigmund Freud Institut.
Oltre al suo impegno accademico, Vera King è anche una figura di riferimento in numerosi progetti di ricerca interdisciplinari, come il progetto "Aporias of Perfection in Accelerated Modernity", e ha ricoperto ruoli editoriali in riviste scientifiche internazionali tra cui il Journal of Social and Political Psychology, Psychoanalysis, Culture & Society e Social Psychology Quarterly.
Il suo contributo scientifico continua a influenzare profondamente il campo della sociologia, della psicoanalisi e della psicologia sociale, con un impatto significativo sulle teorie sociali e culturali contemporanee.
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